La Solitudine del Dottorato – parte II

Abbiamo visto in tutti i precedenti articoli, che la vita del dottorando in Italia non è assolutamente semplice.
E’ altresì facile notare come molti degli elementi negativi possano essere applicati alla vita di qualsiasi altro lavoratore: dall’operaio in fabbrica, al manager di una azienda, dall’insegnante dell’asilo al muratore in nero.

Penso però che il dottorato possa accentuare tutto questo.
Non hai, ad esempio, la gratifica di uno stipendio che riconosca le tue vere ore lavorative. Non hai nessuno che capisca quanta frustrazione devi sopportare ogni giorno. Non hai una politica aziendale in cui credere. Sai benissimo che la tua vita accademica è a termine, vivi di anno in anno, e non hai un futuro.
Chi è intorno a te vive la stessa situazione, per cui non puoi aspettarti nessun tipo di aiuto ma anzi, qualche sgambetto o colpo basso.
Entri in un percorso che dura almeno 3 anni e sai che dopo qualche mese dal tuo inizio non potrai fare altro che finirlo, perché psicologicamente accettare di aver perso tutto quel tempo senza neanche aver preso il titolo di Dottore di Ricerca non è facile.

Per fare il dottorato hai bisogno di una corazza forte. Devi essere una persona dotata di una certa personalità.
Devi poter credere che i tuoi lavoretti in laboratorio possano davvero interessare la comunità scientifica internazionale e che una tua pubblicazione abbia reale valore, anche se pubblicata su un journal o una conferenza di basso calibro, creati solo per far girare soldi e dare facili pubblicazioni a qualcuno, ma che in realtà non hanno quasi nessuna rilevanza scientifica.
Devi accettare il fatto che la soddisfazione arriverà per brevi tratti, quasi come un lampo che squarcia il continuo grigiore delle nubi della frustrazione.

Un ricercatore italiano che lavora all’estero ha definito sul suo blog la ricerca scientifica in maniera molto interessante. Il suo è un post di protesta nei confronti del mondo accademico e di addio, in quanto annuncia di aver preso la decisione di smettere di fare il precario accademico e di volersi dedicare a cose più importanti (la famiglia) e più gratificanti e riconosciute.

Definisce il sistema accademico e il mondo della ricerca scientifica come uno schema di Ponzi. Penso che questo corrisponda al vero. Avrai sempre qualcuno sopra di te, che è solo interessato al tuo lavoro e non alla tua persona, al tuo risultato, non importa se reale o no. Tu sopravvivi solo se sotto di te hai qualcuno da sfruttare. O sfrutti, o sei lo sfruttato.
Paragona inoltre il fare ricerca alla droga: il ricercatore è continuamente alla ricerca della sua dose (la pubblicazione di un paper); una volta procacciata, vive 5 minuti di pura estasi, poi poi ricominciare il periodo di astinenza e feroce ricerca.
La vita accademica è una corsa, una corsa al risultato, una cosa al paper, una corsa allo scavalcare gli altri, al mostrarsi migliore di chi ti sta intorno. Risultati intermedi ce ne sono, ma sono estremamente effimeri, e la corsa ricomincia.
C’è la presunzione di correre e far parte del sistema in base a valutazioni oggettive, quando invece di oggettivo c’è ben poco.

E alla fine ti trovi a 40 anni, dopo aver vagato per mezzo mondo, con l’ennesimo contrattino di 3/5 anni da trovare. Ti accorgi di aver sacrificato tutto il tuo tempo, e ti ritrovi solo, senza una famiglia, senza amici. Di sicuro però sei sfruttato e anche alquanto stressato.

Dipende cosa vuole ognuno di noi. Dipende quali sono le priorità della vita.
Dipende quanto riteniamo importante l’apparire.
Dipende quanto ci reputiamo bravi a correre. E dare gomitate.

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